prodotti alimentari

Sei quello che mangi

Il cibo come elemento culturale. Ma cosa mangiamo davvero in Italia? E cosa si nasconde dietro alla nostra cultura gastronomica tanto famosa a livello mondiale?
6 Giugno 2020
3 min
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La relazione tra cibo e migrazioni è da sempre una costante della storia umana. Anche se oggi andare al supermercato per acquistare prodotti alimentari spesso ci fa dimenticare dell’importanza della relazione tra uomo e ambiente, la nostra sopravvivenza è da sempre intrecciata e dipendente dalle risorse naturali.

Le relazioni sociali, così come i ruoli ricoperti all’interno di una comunità, sono costruiti sulla base del rapporto del singolo con la natura. L’alimentazione ancora oggi è principalmente dipendente dalla disponibilità di risorse e di fronte alla carenza di cibo i popoli sono costretti a migrare.

Col tempo le popolazioni da nomadi sono diventate sedentarie. Si sono sviluppate culture e società complesse e il cibo è diventato un elemento culturale. 

“Sei quello che mangi”, diceva un filosofo. Ma cosa mangiamo davvero in Italia? E, dunque, chi siamo davvero? 

Durante questo periodo di crisi le soluzioni di contenimento che sono state adottate, hanno avuto ripercussioni molto serie anche sui piccoli produttori locali, favorendo invece la grande distribuzione.

La chiusura di molti mercati all’aperto ha comportato grosse perdite per le piccole imprese contadine che in molti casi hanno dovuto buttare parte del loro raccolto. In altri casi invece, alcuni piccoli produttori sono riusciti ad “approfittare” della situazione di crisi adottando soluzioni creative che hanno anche permesso loro di aumentare i profitti grazie alle consegne a domicilio.

Quel che è certo, è che la crisi di questi mesi ha fatto emergere molti dei problemi più urgenti della filiera agricola e alimentare, dando spazio anche a timide opportunità di cambiamento.

Il problema principale è che ancora una volta la direzione di questo cambiamento verrà determinata non tanto dal progresso sostenibile ed etico, quanto più dalle necessità di un’economia finalizzata alla grande produzione di massa e allo sfruttamento dei più deboli.

In Italia

In Italia la grande distribuzione gestisce il 70% dei prodotti alimentari, mentre i piccoli esercizi e i mercati gestiscono il restante 30%. I prezzi dei prodotti che compriamo al supermercato riflettono in maniera diretta i salari percepiti dai braccianti.

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Pike Place Market.
Foto di Thomas Le

Quando al supermercato compriamo una passata a 0,50 centesimi, dobbiamo pensare che quel prezzo riflette i costi dell’attività di produzione e distribuzione, ma anche quelli di raccolta. La questione dei braccianti negli ultimi mesi è emersa chiaramente all’interno del dibattito politico. A sottolineare ancora una volta che l’interesse per i diritti e la dignità delle persone diventa urgente solo nel momento in cui tutto il settore entra in tilt. Il rientro nei paesi di origine di molti braccianti provenienti dall’est Europa – che sono poi rimasti bloccati all’estero a causa della chiusura delle frontiere – ha fatto emergere ulteriormente le criticità e la vulnerabilità di questo settore.

Una delle soluzioni proposte ha riguardato la creazione di corridoi umanitari con la Romania per permettere ai lavoratori agricoli di rientrare in Italia.

Della serie: se scappi da una guerra e passi per la Libia dove vieni torturato e imprigionato per mesi, ti attacchi al tram e forse magari eventualmente, arrivi in Italia su un gommone. Se invece zitto zitto fai lo schiavo a due euro l’ora, ti facciamo entrare in tutta sicurezza. 

E in Europa?

Il problema non riguarda solo l’Italia. La Gran Bretagna è uno dei paesi più colpiti dalla crisi del settore agricolo, complice ovviamente anche l’uscita dall’Unione Europea.

Nel 2019 in alcuni settori, come quello della coltivazione dei frutti rossi, il 98% dei braccianti stagionali proveniva dall’estero. Una delle proposte che alcuni dei nostri politici hanno presentato, è stata quella di impiegare nei campi studenti, disoccupati e pensionati.

Giusto per ricordarci ancora una volta l’abisso esistente tra percezione e realtà propria di buona parte della nostra classe politica. Come se un pensionato 75enne fosse davvero in grado di raccogliere asparagi per 14 ore al giorno in cambio di 1,50 euro all’ora. O come se io, che faccio yoga un’ora alla settimana, fossi fisicamente preparata a questo tipo di lavoro. 

Da una parte, chi può permetterselo è in grado di acquistare prodotti alimentari solidali ed etici, appoggiandosi alle filiere corte o ai Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). È tuttavia innegabile che il consumo critico comporti un rilevante aumento a livello dei costi, ed è impensabile credere che queste realtà costituiscano davvero un’alternativa per tutti.

Il tentativo della ministra Bellanova di presentare una soluzione alle lotte dei braccianti è destinato ad esaurirsi una volta conclusa la fase di emergenza.

Nonostante la legge approvata nel 2016, il caporalato continua a regolare e dirigere buona parte della filiera agricola italiana. Il discorso del 13 maggio della ministra vuole illuderci che grandi passi avanti siano stati fatti nella lotta al caporalato. Lotta che però è destinata a durare solo per qualche mese.

“Temporaneamente, per via delle condizioni eccezionali in cui ci troviamo e dell’urgenza che stiamo affrontando, vi regolarizziamo. Ma niente illusioni, please. Raccogliete ‘ste arance che sennò marciscono ed è un peccato e poi, passati sei mesi, torniamo a fare la caccia all’uomo nero”. 

“Sei quello che mangi”, diceva un filosofo.

Immagine di copertina:
Naseem Buras


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Anima in pena e girovaga. Genovese di nascita e di indole, studia a Bologna Relazioni Internazionali e cerca di sfuggire alla noia mangiando e stando all’aria aperta. E’ nata nell’epoca sbagliata, ascolta solo cantautori morti e adora le carte e le sagre. Scoprire posti nuovi è la cosa che più la entusiasma.

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