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RIFERIMENTI PER IL PRESENTE | Monumenti, opere d’arte o entrambe le cose?

Ecco due esempi per riflettere sulla relazione tra opera d'arte e spazio pubblico.
21 Luglio 2020
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Nel recente articolo Monumenti per il presente abbiamo passeggiato per Genova e riflettuto su come i simboli siano mutevoli. Argomento esaurito? Affatto. C’è ancora molto da ragionare, insieme, riguardo al tema dei monumenti pubblici. 

Il focus di oggi è sulla relazione, inevitabile, tra città e arte.

Ci serviamo nuovamente delle parole di Alessandro del Puppo, che nella puntata precedente ha evidenziato come i monumenti abbiano una doppia natura relazionale: sono contemporaneamente legati alle regole della scultura (rapporto tra corpo e spazio) e al pubblico potenziale, in parole povere, “chi passa di lì”.

Questa doppia natura si traduce, a volte, in una contraddizione. Può capitare che lo spazio pubblico non sia predisposto ad accogliere opere d’arte che provengono dal più circoscritto spazio del sistema artistico: la galleria o il museo, per intenderci, che autorizzano l’opera ad essere opera (nella grande maggioranza dei casi).

Può anche capitare, poi, che i cittadini non siano affatto preparati a relazionarsi con l’opera, ad esempio nel caso in cui questa fosse particolarmente concettuale, astratta, o poco “immediata”. 

In generale, pare opportuno considerare quanto lo spazio e la società siano intrinsecamente collegati, e quanto il monumento (che è un’opera d’arte) costituisca uno dei nodi di contatto tra l’uno e l’altra, e cioè, quanto è indispensabile pensare al monumento-opera come a un oggetto di relazione tra spazio urbano e società, laddove la società, poi, è un grande insieme eterogeneo di persone con idee e obiettivi differenti.

Vediamo ora l’esempio di due fatti accaduti negli anni ottanta proprio negli Stati Uniti, dove quest’anno è scoppiata la rivolta iconoclasta in nome dell’antirazzismo.

Titled Arc – Richard Serra, Federal Plaza (NY) (1981)

Sono gli 80s e la Minimal Art compie vent’anni di successo in America e nel mondo. Un’artista minimal della portata di Richard Serra, ormai arcinoto nel campo dell’arte internazionale, viene invitato dall’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan a realizzare un intervento pubblico a New York nella Federal Plaza, su cui affacciano gli uffici della Corte federale.

Accettato l’incarico, l’artista fa realizzare una lastra d’acciaio inclinata del peso di settantatré tonnellate e la posiziona al centro della piazza, in maniera tale che la attraversi per intero. Il suo intento è intervenire attivamente sul sito, modificando di gran lunga la percezione dello spazio. Teniamo conto che la Federal Plaza è larga circa quaranta metri e ha una pianta semicircolare.

Il monolite di Serra, simile a molti suoi che nei musei generalmente vengono compresi e apprezzati per il loro valore plastico e concettuale, nella Federal Plaza di New York incontra una critica ben più severa di quella delle riviste e dei critici d’arte: la critica dei cittadini.

L’enorme struttura, infatti, blocca la vista della corte interna che si ha dalla strada, e il pubblico (non pagante, in quanto effettivamente pubblico) che passa sotto non sembra essere per nulla interessato, né tantomeno ammaliato dall’intento dell’artista di modificare la percezione dello spazio. Commenti come «La peggiore opera d’arte della città»; «Un pezzo di latta» o «Una gigantesca pala da neve abbandonata» sono tra i più colorati sulla stampa quotidiana del periodo. Si parla anche di muro di Berlino e di «Post-Orwellian art».

Insomma, non passa molto tempo che viene promossa una petizione per la rimozione dell’opera, e successivamente si perviene a una causa civile, dal momento che il caso vede lo schierarsi della popolazione urbana contro l’intero establishment dell’arte contemporanea il quale, come è ovvio, difende l’artista, l’arte concettuale e l’arte pubblica in senso più ampio.

Al compromesso proposto dal Tribunale di dislocare l’opera in un altro sito della città, Serra rifiuta con decisione, difendendo la natura site-specific di Titled-Arc. Pertanto, evitato il compromesso, nel marzo del 1989 la grande lastra d’acciaio viene definitivamente rimossa, smontata e trasferita in un deposito fuori città.

Vietnam Veterans Memorial – Maya Lin Ting, Washington DC (1981)

Diverso e senza alcun dubbio più positivo è il caso dell’opera di Maya Lin Ting, studentessa di Yale e allieva di Richard Serra, che nello stesso anno della costruzione del Titled- Arc del maestro vince il concorso di idee per il Vietnam Veterans Memorial.

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Vietnam Veterans Memorial – Maya Lin Ting, Washington DC (1981). Foto di Kkmd at the English language Wikipedia

In questo caso la critica – sempre pesante – dei cittadini si muove in anticipo, ancor prima che il monumento venga realizzato nel suo sito: bastano infatti le fotografie della ragazza sorridente con il modellino del progetto a scatenare la polemica. Una ragazza (sottolineo: ragazza) asiatica selezionata per onorare e celebrare uomini maschi statunitensi morti in Asia, e per di più con un progetto ben poco glorioso. 

L’idea di Ting appunto prevede la realizzazione, nel declivio di un prato, di un muro di granito lucido nero che si snoda in due segmenti, una rivolto verso il monumento a Washington e l’altro verso quello di Lincoln, con sopra incisi i cinquantottomila nomi dei soldati morti in Vietnam. L’aspetto che suscita più sdegno è proprio la forma a “V” del monumento che annienta la potenza virile dell’onore dell’esercito. La disapprovazione popolare è tanta che su spinta degli oppositori viene commissionato a uno scultore un gruppo bronzeo tradizionale: verticale, figurativo, mascolino, con la bandiera degli Stati Uniti in bella evidenza. 

Ma alla fine, fortunatamente, il monumento di Maya Lin Ting viene realizzato, e il risultato è inaspettatamente sorprendente. Succede che il pubblico, sebbene sempre scettico, fa visita al monumento, e ciascuno timidamente inizia a ricercare il nome del suo caro. In breve tempo cominciano a diffondersi le fotografie di giovani e anziani di fronte al muro di granito nero specchiante, e in molti prendono l’abitudine di innalzare piccoli altarini con fiori e biglietti. Altri portano carta e matita per rincasare con il frottage del muro dove è inciso il nome caro. La diffidenza non c’è più, ora, c’è solo commossa e sentita partecipazione.

In poche parole: la sfiducia verso l’opera concettuale e di gusto apparentemente poco popolare in questo caso è superata dalla grande partecipazione che l’opera suscita una volta realizzata. Capita una cosa impensabile ma che tuttavia è molto potente, e cioè il pubblico si sente integrato, coinvolto, partecipe di una riappropriazione simbolica.

Differentemente all’opera di Serra, il monumento di Ting è un esempio di relazione positiva tra spazio e città, legati insieme in questo caso da un forte senso di appartenenza e una situazione di partecipazione attiva.

Concludiamo: tutti coloro appassionati di arte, a questo punto, si staranno interrogando con me su quale sia lo spazio adatto per l’opera d’arte. Se in un contesto istituzionale più protetto – vedi il caso di Serra – si possono raggiungere certe finezze estetiche e concettuali, nell’aperto e pericoloso spazio pubblico i giochi sono certamente più complessi. Ogni artista è un caso a se stante e le idee sul tema sono molteplici. 

Oggi, mentre nel resto del mondo si abbattono monumenti e contemporaneamente a casa nostra locali privati ottengono concessioni gratuite di spazio pubblico per le loro attività commerciali, il nostro invito è a prestare più attenzione al significato della parola “pubblico”, che non è solo quello del cinema o del museo ma prima di tutto è uno spazio. Uno spazio di relazione, di simboli e di significati.

Immagine di copertina:
wall:in media agency


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Membro del duo curatoriale Mixta con il quale si occupa di progetti artistici che siano attivatori sociali. Ha curato mostre, rassegne e festival negli spazi pubblici, nelle periferie e nei luoghi istituzionali della città di Genova. È anche fondatrice e CEO di Wanda, associazione per la trasformazione culturale, che accorcia le distanze tra le nuove generazioni e la cultura.

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