Sbïra

La sbïra: zuppa genovese di sbirri e condannati a morte

Quattro chiacchiere con Caterina, la maestra della sbïra, zuppa tradizionale genovese. Una storia d’amore tra un gòtto de vin gianco e una slerfa di fugassa.
28 Gennaio 2021
2 min
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«Me vegne sempre in chêu, l’ödô.. bûn, indimenticabile!». 
L’odore, il profumo, insostituibile quello della sbïra, il piatto preferito di Caterina, anziana donnina, dagli occhi stanchi, un tempo sarta, da sempre ottima cuoca genovese.

Caterina è nata e cresciuta a Genova, tra le meraviglie e i segreti del porto, dove un tempo ha conosciuto Mauro, un “chêu tanto dôçe e generoso” che da poco non c’è più ma che viene ricordato con amore e occhi lucidi da chi da tutta una vita l’ha amato e accudito.

«Piggia un gotto de vin gianco», e ancora «piggia a fugàssa! Ghe n’é abbrettio!».

Mi accomodo dietro al tavolo di legno e marmo. La cucina di Caterina è piccola ma è molto luminosa. Dietro di me un grosso mobile di legno scuro, su di esso una piantina di basilico, una di maggiorana, alcuni barattoli di spezie, il caffè. Anche con le finestre chiuse si scorge la voce della gente che fuori passeggia, qualcuno ascolta De Andrè.

Verso il vino nel mio bicchiere e solo ora, finalmente, con Crêuza de Mä (leggi l’articolo di wall:out su Crêuza de Mä Quando Fabrizio dipinse Genova) in lontananza, Caterina inizia a raccontarmi la storia della sbïra, da lei tanto custodita.

«L’ëa ‘na giornâ d’autûnno; gli dicevo -te àmmo- a Mauro, ma lui era birichìn» così, per conquistarlo, un giorno Caterina si fece coraggio e gli disse, «ti preparo il mio ciàtto preferito, se te piaxe mi sposi. Ma aténto che lo so cuxinâ ben». E così è stato. «E dònne ne san unn-a ciù do diâo».

Sghignazza dentro al suo vestito a fiori blu. Da quando Mauro l’ha lasciata, Caterina non cucina più la sbïra «la preparavo solo per lui, me ven o magón», sospira «un dô de cheu. Comme peizan i cavelli gianchi!». La sbïra è una delle più tipiche preparazioni di trippa genovese, il nome è riconducibile al termine “sbiro” che in dialetto significa “miserabile”, da qui “a sbira” ovvero “ il cibo dei poveri”, ma non solo: «zâ fîto de matin veniva preparata per i doganieri e per le guardie delle carceri sotterranee di Palazzo Ducale. Gli sbirri giravano nei carruggi scui, stremensii, di néutte, avvolti nei loro mantelli pesanti», racconta Caterina, che aggiunge «è ricordata anche per essere stata l’ultima çénn-a di moltissimi condannati a mòrte.

C’è sempre stata, c’era quand’ëmo ancon figgiêu in tempo de guæra, c’era quand’èa unn-a figgetta». La sbïra veniva servita caldissima, consumata dai “camalli” (scaricatori di porto) nelle bettole e nelle osterie. Una zuppa energetica e ipercalorica, a poco prezzo. Un piatto antico, dimenticato, che vale la pena ricordare. 

Gli ingredienti della sbïra Caterina me li ha lasciati, con tanto di post scriptum di incoraggiamento. 


Trippa tagiâ sotî 
Êuio butîro (o strutto) 
Çiòula 
Sélao 
Porsemmo 
Funzi 
Pigneu 
Un gòtto de vin gianco 
Sâ 
Sugo 
Brodo 
Pan 

Co-o bon tempo semmo tutti mainæ


Immagine di copertina:
Foto di Francesca M.


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Giornalista freelance. Genovese trapiantata a Roma. Inizia la sua carriera a Milano tra le scrivanie di Class Editori. Lavora al desk di The post Internazionale, approda a Radio3 come tirocinante. Dopo un periodo sul campo in Bosnia, ha documentato le drammatiche storie della Rotta Balcanica. Vive a Roma insieme ai suoi due gatti. Attualmente scrive su Domani editoriale.

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