Monet

Il caso Monet

Cosa vuol dire guardare un quadro? E quanto conta il modo in cui viene messo in mostra pubblicamente? Monet: 5 minuti, 7 euro, tu e le Nymphéas. Finalmente un’idea nuova sulla scena culturale genovese? O solo un’altra banale operazione di marketing?
14 Giugno 2020
5 min
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Succede che da pochi giorni si può entrare in una – bellissima –  sala di Palazzo Ducale e stare – quasi – in solitudine a riempirsi gli occhi, per alcuni minuti, con le Nymphéas di Monet. Questa la notizia. Dal 12 giugno al 23 agosto 2020, Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, in collaborazione con Arthemisiail Musée Marmottan di Parigi e il Comune di Genova ospita la mostra “5 minuti con Monet. A tu per tu con le Ninfee”. La proposta suona così: 

Questa mostra è una sfida alla riscoperta della contemplazione, del contatto e della forza espressiva di un’opera. In un tempo che ci costringe a costruire barriere per proteggerci, Palazzo Ducale invita ad un incontro diretto con un capolavoro, a metterci in ascolto di quanto l’arte, con grande capacità narrativa, riesce a dire di sé, ma anche di noi, per fare del distanziamento sociale messo in atto per proteggerci, un’autentica occasione di avvicinamento all’arte e all’esperienza estetica.

Praticamente: paghi il biglietto, entri e te ne stai lì “da solo o con un famigliare” (sic) e a quel punto ti godi il “capolavoro”. Cioè, non solo quello, veramente, perché poi ad aprire lo spettacolo ci sarà anche un’opera di Boldini, precisamente il suo ritratto della contessa Beatrice De Bylandt, conservato nelle Civiche Raccolte Frugone di Nervi.

Chi è Boldini?

Uno che nel 1894 convinse per la prima volta la Biennale di Venezia che valeva la pena invitare Monet, “ma soprattutto” uno che sta lì a “ricordarci che le raccolte d’arte di Genova conservano tesori che vale sempre la pena di riscoprire” (Serena Bertolucci, Direttrice della Fondazione Palazzo Ducale).

Ora, per discutere di questa proposta, che peraltro pare riservare ulteriori sorprese, potremmo stare qui delle ore: perché proprio Monet, e perché metterci Boldini, e come si fa in soli 5 minuti, e cosa vuol dire “con un familiare”, e alla fine sarà la solita cosa pop, eccetera.

Vorrei dire che tutte queste domande e molte altre meriterebbero di essere pronunciate meglio e soprattutto la mostra meriterebbe di essere visitata per parlarne con calma, una volta fatta l’esperienza. E, infatti, così faremo e ne parleremo qui.

Tuttavia

In quel che rimane, vorrei stringere il fuoco sull’idea. Le Nymphéas, 5 minuti, 7 euro. Facciamo per un attimo pulizia di tutto quello che ci sta intorno. Stringiamo sull’idea. Perché quest’idea tramanda una precisa strategia di politica culturale. Si porta dietro, insomma, una precisa concezione di cosa voglia dire “pensare a nuove occasioni di diffusione e valorizzazione culturale” (nelle parole di Luca Bizzarri, Presidente della Fondazione Palazzo Ducale).

Ecco, questo mi sembra qualcosa su cui valga la pena alzare la mano e chiedere: “Scusi, in che senso: nuove?”

Questo vorrei dire: se mettiamo per un attimo tra parentesi la storia pazzesca di un pittore che devia il corso di un fiume per poi dipingere quel che ne vien fuori, da un’altra angolazione, il caso Monet diventa una occasione imperdibile per discutere di cosa voglia dire un’idea nuova sulla scena culturale genovese. 

Se posso, a questo proposito, ci sono tre cose veloci che mi piacerebbe dire ad alta voce 

La prima è che è difficile non essere affascinati dall’idea. Insomma, la possibilità di stare per un po’ davanti a un quadro, in silenzio, tu e lui, e far accadere qualsiasi cosa possa succedere in quei minuti, è roba da non sottovalutare. E quali che possano essere i confini di tempo e spazio con cui è stata pensata, rimane una bella moltiplicazione della domanda: cosa vuol dire guardare un quadro?

C’entra il silenzio e pure lo spazio. C’entra la cosa che un’opera possa essere soprattutto un trampolino per moltiplicare chi sei tu in quel momento. Se uno vira pure un po’ sul mistico, poi, c’è tutta quella faccenda della contemplazione. Insomma, un’occasione che solo con grande snobismo si potrebbe semplicemente derubricare a mera “banalità”.

Eppure, la seconda cosa è che ogni volta che penso che non vedo l’ora di provare tutto questo, mi viene in mente che messa così suona davvero come un’altra attrazione di un gigantesco parco a tema che è la città e la sua offerta culturale. Venghino, signori e signore, nella gabbia c’è un’altra incredibile “cosa” da vedere da vicino. Paghi, entri nel tendone, e stai a pochi passi dalla grande, anzi grandissima arte: niente meno che le Nymphéas di Monet.

E giù con tutta quella storia del fiume deviato e del pittore, chissà, un po’ folle che per un tempo infinito è stato lì a dipingere una cosa senza sfondo e orizzonte. 5 minuti, 7 euro e ti garantiamo l’accesso esclusivo (o con un famigliare barra affetto stabile, presumo) all’autentica esperienza di: guardare un quadro.

Non so, questo “effetto circo” è difficile da toglierselo di dosso: ma, soprattutto, questo effetto è quanto di meno nuovo si possa immaginare per la scena culturale genovese e non solo.

Allora, nello strabismo di queste due direzioni di pensiero, volevo dire una terza cosa, quella che mi sembra la più utile, quella per cui, in certo modo, tutto il baraccone stesso di wall:out è stato messo in piedi.

Là fuori accadono cose che fanno diventare Genova quella che è, nel mondo dell’economia (Tutto quello che avreste voluto sapere sulle api…), della politica (Quando si discrimina una maggioranza) e, certamente, anche della cultura (A distanza, oltre la distanza: pillole di cultura e partecipazione attiva). Dopo, possiamo passare anni a discuterne ed eventualmente mugugnare, più o meno seriamente, di quel che è successo. Ma possiamo fare anche un’altra cosa, mentre quelle cose accadono: alzarsi in piedi e chiedere: “Scusi, in che senso questa roba la fate così?”.

Non vorrei sembrare eccessivamente ingenuo, ma continuo a pensare che valga la pena partecipare, almeno, alla discussione di ciò che significa “fare cultura” a Genova. Il caso Monet, per come lo vedo io, è un’occasione preziosissima, in questo senso.

Si tratta di una “nuova occasione di diffusione e valorizzazione culturale” oppure è un’altra, affatto inedita, modalità di marketing del patrimonio culturale che gioca sulla spettacolarizzazione in piena aderenza a una certa logica dei media tradizionali?

Non è che la risposta sia facile, mi pare. Il punto è che non mi sembra neppure così importante in sé. Almeno non quanto sfruttare l’occasione di questa proposta per prendere parte alla sua discussione.

Ricordando, sommessamente, che ciò che ha a che fare con la cultura e la sua valorizzazione, non è qualcosa che riguarda un manipolo di happy few che non hanno altro da fare nella vita, ma semmai qualcosa che contribuisce a definire l’identità di una comunità.

E la responsabilità di questa definizione, questa sì, non può e non deve essere, ancora una volta, nelle mani di pochi.


Monet

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Immagine di copertina:
Musée de l’Orangerie, Paris, France. Foto di Stijn te Strake


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Nasce e vive a Genova, dove ha studiato Economia e altre cose noiose. Finisce a lavorare a Milano, dove ora insegna Sociologia della cultura all’Università di Milano-Bicocca. Nel frattempo, ha scritto di cibo e altre cose divertenti su riviste scientifiche, quotidiani on line (Genova24.it) e su qualche libro (Carocci Editore). Per il resto, si dedica a due discipline antiche: arti marziali cinesi e degustazione di vino.

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