Afghanistan - Ventimiglia

Da Herat a Ventimiglia. Il cammino incessante dei profughi afgani

Il cammino incessante di Tariq dall'Afghanistan a Ventimiglia tra violenze e sfruttamento.
8 Settembre 2021
3 min
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«Non ho paura del buio. E nemmeno delle botte. Ho paura di rimanere bloccato o di dover tornare indietro. Ho camminato così tanto per arrivare fino a qui!». 

Tariq ha venticinque anni, è nato a Herat, città dell’Afghanistan occidentale, città oggi caduta nelle mani dei Talebani.  

«La mia famiglia ora si trova nascosta da amici a Kandahar: mio fratello collaborava con le forze internazionali. Non l’hanno evacuato e ora è nascosto. Ha 19 anni». 

Tariq vorrebbe raggiungere alcuni cugini in Francia. Oggi è qui, di fronte alla chiesa di Sant’Antonio delle Gianchette, a Ventimiglia. 

«Un pò di tempo fa, sono riuscito a salire su un camion, ho pagato molti soldi, ma mi hanno trovato presto, mi ero nascosto male» sorride.  

Tariq vive a Ventimiglia da qualche mese, non si ricorda il giorno in cui è arrivato, si ricorda però il giorno in cui ha lasciato l’Afghanistan:

«Sono partito due anni fa, sono arrivato in Iran con alcuni amici, ci hanno trovato e ci hanno respinto nuovamente in Afghanistan. Quella è stata la prima volta che mi hanno picchiato duramente. Qualche mese dopo ci ho riprovato e sono riuscito ad arrivare in Turchia: mi ha aiutato un vecchio amico. Ho impiegato qualche mese a raggiungere la Bulgaria e poi la Serbia. Da Belgrado sono arrivato a Sarajevo, dove sono rimasto pochi giorni; qui ho conosciuto dei ragazzi e con loro mi sono spostato a Bihac. A Bihac sono rimasto otto mesi, gli ultimi due in realtà li ho trascorsi tra Velika Kladusa e il bosco, per il game».

Quello che viene chiamato “game”, è tutt’altro che un gioco, quanto più un disperato tentativo di superare il confine con la Croazia

«E’ stato terribile», racconta Tariq, «ogni volta speravo fosse l’ultimo cammino nei boschi e invece la polizia mi trovava, io non so come riuscisse. Mi picchiavano, mi picchiavano davvero con tutta la violenza in corpo, con tutta la cattiveria. Mi ricordo che mentre picchiavano, ridevano»

Velika Kladusa, come Ventimiglia, è ormai da anni il cul de sac per centinaia e centinaia di migranti. Oltre al tragico esodo dalle coste della Libia, infatti, c’è un altro cammino che porta migliaia di persone a cercare sicurezza e pace per via di terra, percorrendo centinaia e centinaia di chilometri sulla rotta balcanica con l’intento di superare i confini croati e raggiungere l’Europa. Il lungo e pericoloso cammino li porta fino alla frontiera tra Bosnia e Croazia, a un passo da un’Europa rigidamente blindata. Qui, per mesi e mesi, restano arenati, sospesi in un nulla fatto di freddo, solitudine, ignorati quasi completamente (articolo di wall:out Mamadou Moussa Balde, profeta della disastrosa situazione dei migranti a Ventimiglia).

Dopo due mesi di “gioco”, Tariq riesce a raggiungere le strade di Trieste e da lì a poco incontrerà il mare di Ventimiglia. 

«Quando sono arrivato in Italia ho baciato la terra», ricorda.

Tariq non è il solo a voler superare il confine con la Francia, come lui sono tantissimi i ragazzi migranti che hanno raggiunto Ventimiglia e che oggi attendono di varcarlo.

I numeri sono aumentati a inizio estate, trasformando la città di frontiera in un “campo di accoglienza” a cielo aperto. Uomini, ma anche donne che rischiano sempre di più abusi e violenze in cambio di opportunità di passaggi. Molte di loro arrivano “accompagnate” e si muovono gestite da organizzazioni di passeur che hanno iniziato lo sfruttamento sui marciapiedi italiani e per continuare a farlo oltre confine, oggi producono documenti e tutto il necessario per il passaggio. 

Quella che fino a qualche anno fa veniva chiamata emergenza oggi non ha più un nome

A Ventimiglia c’è paura, disperazione, sfruttamento e business: quello della tratta delle donne e quello dei passaggi a pagamento della frontiera. Vittime di questo giro d’affari basato sulla disperazione sono migranti nella maggior parte dei casi regolarmente presenti sul suolo italiano, ma impossibilitati a muoversi in altri stati europei dalle norme che regolano l’immigrazione.

«Cinque giorni fa, un giovane è morto folgorato sul tetto di un treno, nel tentativo di attraversare il confine disperato tra Italia e Francia. Sappiamo tutti che questa non è stata la prima e purtroppo non sarà l’ultima vittima della frontiera, a meno che il sistema-confine non cessi presto di esistere» raccontano i no borders dopo un flashmob in piazza Cesare Battisti, a Ventimiglia, per chiedere l’apertura delle frontiere, e aggiungono «tutto ciò che accade, le violenze, le morti, gli abusi, è stato normalizzato: la maggior parte delle persone non ne parla, i media – locali e nazionali – si limitano a trafiletti scarni e servizi giornalistici che non approfondiscono la situazione: non ne individuano le cause né ne analizzano le conseguenze».

Da quando è stato chiuso il Centro di prima accoglienza, la presenza di persone migranti che si accampano per strada è intanto aumentata.

In mancanza di strutture idonee all’accoglienza temporanea, i giovani e le giovani migranti hanno cominciato ad accamparsi sotto il cavalcavia di via Tenda. A costeggiare il fiume sono le coperte, i materassi, i cartoni e i panni, stesi sulle recinzioni metalliche che costeggiano le rive.

Sui binari, sotto i ponti e accampati nella più totale precarietà si possono incontrare anche ragazzini, minori non accompagnati e famiglie con bambini piccolissimi. Per loro la Caritas mette a disposizione alcuni rifugi temporanei, mentre le istituzioni latitano. Qui non esistono luoghi dove lavarsi, dormire e mangiare che non siano quelli messi a disposizione con generosità da associazioni, volontari e solidali. 

Il supporto dato da queste realtà informali è però ancora lontano dall’essere sufficiente.

Immagine di copertina:
Foto di Francesca M.


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Giornalista freelance. Genovese trapiantata a Roma. Inizia la sua carriera a Milano tra le scrivanie di Class Editori. Lavora al desk di The post Internazionale, approda a Radio3 come tirocinante. Dopo un periodo sul campo in Bosnia, ha documentato le drammatiche storie della Rotta Balcanica. Vive a Roma insieme ai suoi due gatti. Attualmente scrive su Domani editoriale.

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